Caro sportello di inserimento lavorativo ti scrivo…
Riflessioni di una giovane iscritta all’Ordine degli Psicologi della Lombardia nel 2006
Tanto è stato e sarà scritto sulla figura dello psicologo e sul sempre più articolato e complesso scenario formativo e professionale che la caratterizza: il seguente contributo desidera ripercorrere quelli che, a mio avviso, sono alcuni degli snodi più critici, filtrati dalla mia personale riflessione e esperienza che, per quanto parziali e limitate, spero possano costituire un ulteriore stimolo di confronto, condivisione ed approfondimento per quanti hanno scelto di intraprendere i nostri studi e la nostra professione.
Il primo dato che mi sembra opportuno sottolineare è di carattere storico: la psicologia è una scienza /disciplina (la stessa terminologia di definizione potrebbe dar luogo ad accesi dibattiti) giovane: se la sua nascita storica risale al 1879 (il “famoso” laboratorio di Wundt a Lipsia), il primo corso di laurea italiano è ufficialmente sancito nel 1971 (col decreto 183 del 21 luglio presso la facoltà di magistero a Roma e col decreto 279 del 5 novembre presso la facoltà di magistero a Padova) e la professione è stata definita ordinisticamente solo nel 1989 con la legge 56 del 18 febbraio 1989.
E’ proprio sui 36 articoli che compongono questo testo di legge che è necessario soffermarsi per tentare di avvicinare la comprensione di uno scenario tanto complesso e variegato quale quello della professione di psicologo in Italia che, cito testualmente dall’art. 1, “comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito”.
Queste poche righe, in cui ciascuno psicologo italiano, abilitato all’esercizio della professione, dovrebbe poter ritrovare la propria identità e rappresentazione sociale, sono densissime di significati e implicazioni. Le parole “prevenzione”, “diagnosi”, “abilitazione-riabilitazione” “sostegno” fanno riferimento alla terminologia (e dunque all’epistemologia) della medicina, scienza ben più antica e socialmente consolidata: si apre così l’annosa questione della avvenuta medicalizzazione e “sanitarizzazione” della psicologia italiana, a sua volta portatrice di numerose ricadute e implicazioni a vari livelli.
La 56/89 infatti riserva l’articolo 3 per definire la figura dello psicoterapeuta quale psicologo o medico specializzato attraverso corsi almeno quadriennali, che l’articolo 3 del Decreto del Presidente della Repubblica n°162 del 10 marzo 1982 attiva presso scuole universitarie o presso istituti a tal fine riconosciuti.
Attualmente, come si può ricavare dai dati pubblicati in rete sul sito dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia, sono presenti in Italia 142 scuole private legalmente riconosciute: nella sola Milano se ne contano 40, di diversi orientamenti teorici; vi sono invece solo 3 scuole universitarie: quelle in Psicologia Clinica, rispettivamente, dell’Università di Milano e dell’Università San Raffaele e quella in Psicologia del Ciclo di Vita dell’Università di Milano-Bicocca.
Personalmente mi hanno sempre colpito le differenze tra queste due tipologie di formazione post-lauream che, pure, rilasciano lo stesso titolo di psicoterapeuta:
– i costi: decisamente più elevati per le scuole private, che possono arrivare a costituire investimenti in formazione fino a 12000 euro l’anno (tenendo conto dei costi di un lavoro terapeutico su di sé e delle supervisioni);
– le modalità: molto teoriche quelle delle scuole universitarie statali, al contrario di quelle private, dunque legate all’esercizio della professione terapeutica, che discutibilmente si può apprendere ad esercitare studiando solo testi e manuali ma necessita di un “apprendimento esperienziale”.
Mi permetto di esprimere una riflessione che per diverso tempo mi ha accompagnato nei miei primi passi nel mondo del post-lauream: un giovane medico, specializzando in un settore della medicina (pediatria, dermatologia, oncologia..) apprende la propria professione lavorando durante gli anni della specialità che sono, normalmente, retribuiti; un giovane psicologo paga alte cifre per una formazione professionalizzante, aperta anche ai medici, dove l’apprendimento è inscindibile dall’esperienza o, in caso contrario, frequenta un’ulteriore formazione teorica, ma presso la facoltà di Medicina.
Anche a livello legislativo la situazione è piuttosto articolata: se da un lato ai sensi della legge 401/2000 il riconoscimento dell’attività psicoterapeutica è titolo valido quale specializzazione per l’accesso ai concorsi pubblici, la più recente sentenza n°3874/04 stabilisce che non possono accedere ai concorsi per il profilo psicologia clinica coloro che sono specializzati in Psicoterapia in base agli articoli 3 o 35 della 56/89, ribadendo dunque il concetto che non esistono specializzazioni universitarie in Psicoterapia, mentre la normativa relativa ai pubblici concorsi prevede che le specializzazioni siano accademiche.
Dunque secondo le recente legislatura la psicoterapia non è una specialità medica (peraltro agli psicoterapeuti non medici è sempre stato vietato ogni intervento di competenza esclusiva della professione medica, quale la prescrizione di farmaci) ma neanche psicologica in senso stretto, cioè legata alla matrice accademica.
A rendere ancora più complessa la situazione è intervenuta anche la recente riforma universitaria con l’introduzione delle lauree triennali, che ha dato luogo (Decreto del Presidente della Repubblica 328/2001) alla figura del dottore in tecniche psicologiche per il quale si è istituito l’elenco degli iscritti all’Albo con sezione B, distinti dagli psicologi iscritti all’Albo sezione A (laureati con il vecchio ordinamento o con laurea specialistica 3+2) le cui attività professionali l’Ordine della Lombardia ha individuato come suddivise in due aree: per i contesti sociali, organizzativi e del lavoro e per i servizi alla persona e alla comunità.
Si tratta di una suddivisione che a mio avviso riflette ancora una mentalità “accademica”, legata all’oggetto di studio e al conseguente contesto di lavoro, piuttosto che per gli strumenti conoscitivi e di intervento impiegati.
A mio avviso questa divisione per oggetto si riflette anche in altre posizioni dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia, quali:
– le direttive secondo le quale lo psicologo si può qualificare come “specialista in” se ha conseguito la specializzazione post-lauream universitaria (psicologia clinica, psicologia del ciclo di vita) piuttosto che dottore in psicologia a indirizzo……..[1]
– la spinosa questione degli accreditamenti per dar luogo a liste di esperti in un determinato settore/campo di intervento della psicologia, non più in termini “ volontaristici” ma, dal 2002, attraverso la frequenza di corsi che rispettassero determinati criteri (numero di ore, ente erogatore e gestore) decisi dalla Fondazione dell’Ordine stesso. Il nuovo Consiglio dell’Ordine, insediatosi dal 1 febbraio 2006, sta procedendo allo smantellamento di tale sistema che, peraltro, aveva prodotto un numero esiguo (948 in 36 mesi) di colleghi “esperti” in una delle numerosissime (28) aree individuate.
Un altro aspetto particolarmente significativo dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia è la distribuzione nel tempo dei suoi iscritti: dai dati dello stesso infatti apprendiamo che, dal 1990 al 2006:
– 2217 risultano iscritti con l’articolo 34 della 56/89
– 1062 risultano iscritti con l’articolo 33 della 56/89
– 493 risultano iscritti al 31 dicembre 1994 con l’Esame di Stato abilitante da effettuarsi (art 2 della 56/89) dopo il conseguimento della laurea in psicologia e l’effettuazione di un tirocinio pratico
– 3294 risultano iscritti nella fascia temporale 1995-1999
– 3776 risultano iscritti nella fascia temporale 2000-2005
– 647 risultano iscritti nel primo semestre del 2006
Mi vengono in mente alcune considerazioni significative rispetto alle idee che desidero esprimere con questo contributo:
– gli Psicologi della Lombardia sono tantissimi: se la matematica non è un’opinione la somma delle cifre esposte è 11489 (anche se lo stesso documento, on line su www.opl.it riporta la cifra, aggiornata al 1 giugno 2006, di 9553): in ogni caso, è un numero enorme, nonché una percentuale ingente rispetto all’intero numero di tutti gli Ordini regionali che, dal 1989, avrebbero accolto “oltre 45.000” iscritti.
– “L’esplosione numerica” colpisce il decennio 1995-2005: il proliferare, negli anni, di Facoltà e corsi di laurea in Psicologia ha prodotto migliaia di iscritti negli ultimi 10 anni, da quando cioè è stato istituito l’Ordine stesso: professionisti giovani, che oggi come oggi hanno un’età compresa, approssimativamente, tra i 26 e i 36 anni.
Legato a questi dati è un aspetto a mio avviso molto significativo che oserei definire “scollamento generazionale”, cioè la distanza dall’esiguo (relativamente) numero di psicologi, appartenenti alla generazione precedente “l’esplosione”, e divenuti tali con norme transitorie (quelle contenute appunto negli articoli 33 e 34 della legge 89/56) pensate per raccordare il mondo della formazione universitaria prima del 1989 (quando la stessa situazione accademica italiana in Psicologia, ma non solo, era ben diversa da quella dell’ultimo decennio) all’Ordine degli Psicologi e al relativo albo di iscritti.
Nella stressa direzione va il dato che vede nel 1995 gli psicoterapeuti rappresentare il 72% del totale degli iscritti all’Ordine e oggi solo il 37%, la maggior parte dei quali (il 74%) con l’articolo 35, dunque, ancora una volta, i professionisti “senior”.
Senza entrare ulteriormente nel dettaglio di numeri, percentuali, anni e norme (per le quali il volenteroso potrà rifarsi alle opportune fonti), preferisco fare un paio di considerazioni personali, da psicologa giovane (ancora per poco) che vive sulla propria pelle questa realtà.
Ciò che è più preoccupante per noi giovani psicologi è l’enorme fatica a CRESCERE, non come numeri si intende (in questo le statistiche dicono che siamo stati bravissimi!), ma in termini, per l’appunto, psicologici.
Con questo mi riferisco alla realizzazione di quelli che la stessa letteratura psicologica indica come le conquiste dell’età adulta: il raggiungimento consapevole e responsabile dell’autonomia, in ambito economico e abitativo, nonché affettivo-familiare attraverso un sano processo di separazione/individuazione dalle proprie origini (la famiglia d’origine, l’adolescenza) e di appropriazione del proprio “ruolo professionale” e, con esso, del proprio posto nella società.
Una società che nel 2006 esprime bisogni e caratteristiche molto diverse da quelle di qualche decennio fa, come forse testimonia La Repubblica del 24.9.06 in cui un articolo di intera pagina dedicato alla consulenza filosofica titola “Psicologo addio, è l’ora del filosofo”.
Mi sento anche di aggiungere che in quella che potremmo definire “realizzazione dell’età adulta” spesso le generazioni di professionisti fanno fatica a dialogare, ad aiutarsi, a sostenersi, ad ascoltarsi: noi giovani psicologi siamo tanti e nel momento storico attuale, segnato da grave crisi economica e da preoccupante precariato lavorativo, fatichiamo non poco a conservare quella stessa “dignità”, nonché “diritto all’autodeterminazione e all’autonomia” che l’articolo 4 del nostro Codice Deontologico garantisce a chi dovesse avvalersi delle nostre prestazioni.
Forse stiamo pagando il prezzo storico di chi, prima di noi, ha voluto che in Italia la psicologia fosse medicalizzata e legata al potere (contrattuale ed economico) dell’istituzione e dell’accademia: in fondo la stessa 56/89 può essere considerata, attualmente, come un tentativo di portare la formazione non medica, ma umanistica, alla relazione e al disagio, nel Sistema Sanitario Nazionale.
Credo che il “compito evolutivo” che dovrebbe impegnare tutte generazioni di psicologi italiani sia quello di ripensare operativamente la professione perchè possa essere effettivamente tale, cioè qualcosa in cui si crede, a cui ci si appassiona ed entusiasma, per cui si prosegue l’aggiornamento, come ci prescrive l’articolo 5 del Codice Deontologico, ma potendolo vivere come un desiderio e non, come purtroppo spesso mi è capitato di osservare in questi anni, come un enorme dispendio di tempo, denaro ed energie alimentante la speranza di un futuro migliore e nonché fantasia compensatoria rispetto a condizioni lavorative precarie, saltuarie, poco redditizie e talvolta ben distanti dalla preparazione acquisita.
Forse mi sono lasciata prendere un po’ troppo la mano dalla mia vena sentimentalistica, ma penso anche che tutti i consigli per spendersi come giovani professionisti (che un collega ha battezzato “psico-marketing”) non possano prescindere dal rispetto e dalla stima reciproci. Stima e rispetto che a mio avviso dovrebbero appartenerci professionalmente al di là dei tanti schieramenti celati dalla cripticità delle loro sigle e relativi acrostici tanto diffusi in clima e tempo di campagna elettorale e al di là delle eterne discussioni-tormentoni sulla funzione dell’Ordine (garante dell’utente o del professionista).
Recentemente ho partecipato, in veste di uditrice, a un paio di Consigli dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia in cui i giovani colleghi di AltraPsicologia, miei coetanei, sedevano al tavolo con colleghi appartenenti alla “generazione precedente” e, dentro di me, mi interrogavo sulla effettiva possibilità che, insieme, “ci si prenda cura della professione”, attraverso un comune percorso di crescita e di condivisione a favore dell’individualità ma contro l’individualismo.
E’ solo un’illusione?…il tempo, a partire dal mio prossimo appuntamento con lo sportello di inserimento lavorativo, “frutto” del lavoro di questo nuovo Consiglio, dirà…
Laura Sforzini
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Categoria: Lavoro
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